Forse è l’ ultimo “bardo”; o piuttosto è il primo dei nuovi “bardi” che verranno dopo di lui per tentare, come fa lui da anni, di raccogliere in un unico universo poetico le sfaccettate realtà quotidiane. Senza escludere nulla del fluire dei giorni e degli anni. Raffaello Pecchioli ha infatti, dentro, la rabbia del tempo, ma ha anche altre cose che ormai molti hanno dimenticato e che sono invece il nocciolo della poesia: ha prima di tutto il senso di una lingua come segno, l’ uso fantastico e piano delle parole prese per quello che sono; ha il senso per della narrazione, lungo la quale si perde difficilmente, riuscendo a riprendere, pagine e pagine dopo, un attacco appena accennato precedentemente, a saldare una sfumatura appena intravista facendola diventare chiave di volta di tutto il discorso; ha infine la dote, rara, di uscire dalle sedie del coro, tutte ben allineate, una accanto all’ altra, lustre per lo struscio di migliaia di glutei avvolti di panno buono, e di intonare un assolo che è diverso da ogni altro canto, che non è anticonformista per moda ma per urgenza d’ esistere. La stessa urgenza che costringe Pecchioli a inventarsi il verso strappandolo con violenza alla prosa,e, frantumandolo, violentarlo fino al punto di rottura totale per farlo diventare ora salmo ora bestemmia, ora dolcissimo “lied” compunto sulla sua brava scala sonora, ora jazz impazzito di fantasie foniche.
Niente trascura il “bardo” pur di abbracciare tutta la possibilità di raccontare; e là dove il racconto sembra racchiudersi in se stesso, impenetrabile, è il momento di prestare la maggiore attenzione perché dalle profondità dove sembra essere finito, il verso riemerge improvviso, la narrazione esplode in un nuovo filone e la poesia si reinventa, come se si fosse scoperta dentro, in quel momento, per la prima volta, la sua vera funzione di poesia.
Due temi base ha dentro, infatti, questo “Alcefalo e il bao-bab”, i temi tradizionali di tutta l’ opera di Pecchioli, quelli del “bardo”: politica e sesso, che stanno alla base dell’ uomo e delle sue storie; due temi che sono poi i temi specifici di tutti i classici, dai greci in poi, e che oggi, un pò per paura, un pò per scarsa capacità sono stati relegati a ruoli secondari. Una poesia quindi profondamente impastata di materia, decisamente terrena, che trova nel sesso la forza continua di rinvigorirsi e di rigenerarsi senza ipocrisie o tentennamenti.
Una volta, scrivendo di Pecchioli, mi trovai sulla pagina Neal Cassidy, l’ ispiratore di “On the road”, strana musa precocemente spezzata di Ginsberg e della generazione “beat”: c’ era entrato da se, senza chiedere il permesso, su quella pagina, semplicemente perché la sua carica sessuale, la sua carica verbale, la sua ribellione e la sua volontà di essere uno al di fuori del coro rappresentava quella stessa forza poetica terrena che è propria di Raffaello Pecchioli e che costituisce un tutto unico della sua poesia: da “Primavera nera con fiori”, dove le nuove generazioni guardano con rabbia alle promesse non mantenute dalla resistenza; a “La piccola morte”, dove l’ uomo, naufraga nel dolore sesso e nel dolore morte sfogliando le pagine di una intima cronaca violentata, fino a questo “Alcefalo e il bao-bab” che prosegue il cliclo di una rivolta mancata, di una rabbia non placata, ma anzi alimentata ancora più da delusioni più radicate, da offese più profonde, da cronache sempre più deludenti.
So di non essere d’accordo con Pecchioli se dico che il suo essere “bardo” non nasce, per me, da quel Maijakowskij che lui ha come maestro di intelletto, né nasce dal filone rivoluzionario della poesia sovietica, ma nasce piuttosto con il meglio della poesia americana del secolo scorso e di oggi. “Bardi” così ce ne son stati pochi negli ultimi cento anni: uno di questi è senza dubbio Walt Whitman, che fece della sua terra e della storia di quella terra, che fece degli uomini e delle loro passioni, che fece della morte e del sesso il motivo primo della sua poesia. Così mi sembra per Pecchioli, che ha fatto della nostra storia, delle nostre illusioni quotidiane, delle nostre affollate solitudini, dei nostri consensi corali, dei nostri amori sessuali intellettuali il materiale terreno sul quale rompersi denti e cervello. “Bardo” senza salotti per discutere i suoi canti, poeta senza corti benevoli alle quali raccontare i suoi versi, uomo racchiuso in un guscio di solitudine, rivoluzionario senza fucile, Pecchioli resta, per chi sappia leggerlo, un fatto unico nella poesia del nostro tempo. Sono necessari una gran rabbia e un grande amore, una immensa solitudine e una allucinata speranza di verità per mettere insieme la grande febbre dell’ “Alcefalo e il bao-bab” che si presenta come una completa rilettura che il poeta voglia fare di se stesso, dei suoi versi e della sua vita, ma che alla fine, in una specie di delirio fatto di immagini, sensazioni, ricordi, tutto quanto viene riconfermato e approfondito. perché in fondo realtà è andarsene ” da solo nel bosco / con in tasca / i triangoli dell’ incomprensione”. Ed è una incomprensione che riporta alla solitudine, all’ allucinato scriver giù versi drogati di nicotina e di passioni alla ricerca di quei perchè elementari che improvvisamente hanno reso ancora più grande l’ amore delle cose vissute. Siano questi amore o sesso, amore o rivolta, amore o disperazione:
l’ amalgama che fa vivere e che ha fatto nascere questa voce solitaria fuggita dal coro che è la poesia di Pecchioli.
Umberto Cecchi